Syrian refugees in turkey: child labour exploitation. Ph Andrea Panico
reportage,  Turchia. Io non ho sogni

Io non ho sogni – L’infanzia negata

 

 

“Vi fu un tempo in cui facevi domande perché cercavi risposte, ed eri felice quando le ottenevi. Torna bambino: chiedi ancora.” (C.S. Lewis)
Quando l’infanzia muore, i suoi cadaveri vengono chiamati adulti ed entrano nella società, uno dei nomi più garbati dell’inferno. Per questo abbiamo paura dei bambini, anche se li amiamo: sono il metro del nostro sfacelo.” (Brian Aldiss)

 

 

 

Gaziantep [1], sud est della Turchia. Ultima settimana del novembre 2016.
La città è assopita nella proverbiale quiete che segue sempre la tempesta. Bufere e tifoni che in Turchia continuano a succedersi da luglio senza tregue, oramai uno dopo l’altro: epurazioni del sultano, attentati terroristici, scandali internazionali.
Il cielo è chiaro.
Solo all’orizzonte i soliti nuvoloni di monossido di carbonio, e infinite varietà di polveri sottili, continuano a premere contro l’Okladag e il Ceryan Tepesi.
Nonostante sia quasi dicembre non piove da settimane e la terra dei campi, che circondano la città, è secca e spaccata. Ad ogni folata di vento l’aria che preme sul viso è sempre più asciutta e irrespirabile.
Qui polvere e sabbia si depositano ovunque. Persino lungo la commerciale Hamdi Kutlar Caddesi, dove ieri pomeriggio un ragazzino suonava con una telecaster blu scura graffiata l’antico retaggio della sua musica araba, sporcandola di nascosto con pentatoniche e progressioni bluseggianti in Lam.
Silenzio stagnante.
Poi all’improvviso, come un formicaio disturbato, alle otto e trenta del mattino la Gumruk Caddesi si sveglia dal torpore del coprifuoco.
Il silenzio viene rotto dal frastuono delle saracinesche mal oleate che, una dopo l’altra, vengono tirate su. I colpi secchi e sordi riecheggiano nel quartiere, sino all’enorme centro commerciale Sankopark che tra poche ore sarà un brulicare umano.
I fumi dei forni cominciano ad invadere le strade e i vicoli. Una cortina di vapori aspri e densi odorano la città di spezie e plastiche bruciate, di sudore e pelli conciate.
In quasi tutte le botteghe, a calcare i passi di ogni adulto c’è ne sempre uno di loro: un bambino siriano con non più di dodici o tredici anni, l’antitesi perfetta di ogni Peter Pan occidentale.
Silenziosi osservano e attendono la prima richiesta, il primo ordine impartito dal padrone.
Ne emulano con timore i gesti. Visibilmente asincroni nei movimenti rispetto ai mastri, perché le mansioni loro assegnate sono destinate al corpo e all’apparato muscolare di un adulto.
Nel gelo degli otto gradi c’è chi afferra il sacco della spazzatura del giorno prima, alcuni tirano fuori i contenitori da trenta chili di farina dal ripostiglio, altri ancora infilano il grembiulino bianco per avviarsi a pulire i tavoli o a montare i banchetti di souvenir da vendere ai turisti.
Tutti loro, come piccole formiche operaie, iniziano la giornata di lavoro.
Sono solo alcune delle pedine di quell’esercito fantasma, la cui presenza sul territorio, di alcune centinaia di migliaia di loro, si stima non sia neanche censita dal Governo e dalle ONG: operai in fabbriche abusive, raccoglitori di ortaggi nelle serre o nei campi di pistacchi, mendicanti e rivenditori di sigarette di contrabbando.

L’esercito fantasma

Ad oggi, si ritiene che dei circa tre milioni di migranti siriani presenti in Turchia [2], almeno la metà abbia un’età inferiore ai 18 anni. I dati ufficiali delle Nazioni Unite riferiscono, su poco più di due milioni e ottocentomila unità registrate ufficialmente, di circa un milione e duecentomila under 18 e quasi 400.000 under 5. [3]
Durante l’anno scolastico 2015-2016 il Ministro dell’istruzione aveva dichiarato che erano circa 650.000 i migranti bambini che non avevano avuto accesso all’istruzione. [4] I dati forniti dal governo riferivano infatti di non più di 320.000 siriani iscritti nelle scuole. [5]
In merito al nuovo anno scolastico 2016-2017, l’UNICEF – riprendendo fedelmente nel suo rapporto di fine anno (dicembre 2016) [6] i dati pubblicati dal governo turco – parla invece di “sole” 380.000 unità a cui neanche quest’anno è stato ancora possibile garantire il diritto allo studio.
La medesima organizzazione afferma quindi che, con 490.000 iscritti durante l’anno scolastico in corso, per la prima volta dall’inizio della crisi è maggiore il numero dei bambini dentro le scuole di quelli fuori.
Anche a voler ritenere attendibili tali dati snocciolati dal ministero turco, che pur mostrando un miglioramento rispetto al trend del 2015 restano comunque aberranti, sono inevitabili tre considerazioni.
In primis, salta agli occhi di chiunque l’incredibile lentezza con cui il governo si è mosso e continua ad agire per assicurare un’istruzione ai migranti minorenni nel contesto di una crisi che si protrae dal 2011.
La prima delle cause della mancata scolarizzazione è da individuare infatti nelle misure inadeguate prese da Ankara sin dall’inizio del conflitto siriano che, ancora oggi, dopo sei anni, permettono a meno del 10% delle famiglie siriane l’accesso ai campi, abbandonando il restante 90% a enormi difficoltà economiche e di accesso ai servizi di base, tra cui la scuola.
I dati al novembre 2015 elaborati da Human Rights Watch [7] stimavano che all’incirca il 90% dei bambini che vivevano nei campi frequentavano regolarmente una scuola; rappresentando tuttavia quest’ultimi solo il 13% dei rifugiati siriani in età scolastica. Considerando la bassa percentuale di residenti nei campi, nel 2014-2015 si stimava che in totale fossero non più del 25% i siriani che in Turchia avevano accesso all’istruzione. [8]
Sempre nel 2015, AFAD [9] snocciolava percentuali di scolarizzazione che per i bambini di età compresa tra i 6 e gli 11, che vivevano fuori da campi, non superava il 15% [10] e sottolineava come tale differenza “undermines the United Nations’ “no lost generation” strategy”.
In secondo luogo, ogni volta che vengono forniti dati ufficiali provenienti dalle Nazioni Unite (salvo eccezioni) è opportuno ricordare che si riferiscono a migranti registrati. Si stima siano almeno 300.000 coloro che al momento vivono sul suolo turco senza essere mai stati censiti. La maggior parte di questi sono bambini. In tal senso è inevitabile che le cifre relative alla dispersione scolastica siano destinate a salire in modo vertiginoso.
In ultimo, la gravità dei dati di cui sopra, deve essere contestualizzata rispetto l’attenzione che il popolo siriano prestava alla cultura prima di essere lacerato dalla guerra: un tasso di iscrizione del 99% per l’istruzione primaria e dell’82% per la scuola secondaria inferiore. [11]
La domanda immediatamente consequenziale da porsi a questo punto è: cosa succede ad un esercito, in parte fantasma, di generazioni a cui non è stata consentito di fatto l’accesso all’istruzione?
Cosa accade se gli stessi sfortunati protagonisti sono costretti a vivere nella miseria più totale, abbandonati dalla comunità internazionale e dal paese che li dovrebbe proteggere?
Lavoro minorile, accattonaggio, reclutamento da parte di forze armate di matrice terrorista, sfruttamento sessuale: sono queste le principali cause in Turchia, per i giovani migranti, della fine dell’infanzia e di un’entrata scomposta e traumatica nell’età adulta.

 

 

Il cancro del lavoro minorile

Le ONG stimano che in Turchia, attualmente, migliaia di piccoli siriani siano impiegati illegalmente in un lavoro. [12]
Una serie di concause, sono diventate di fatto la forza motrice che sta alimentando il cancro della grande macchina del lavoro minorile [13], da sempre all’opera nel paese.
Continuano infatti a spingere i minori siriani nella trappola dello sfruttamento:
(I) un sistema perverso di leggi – che permette all’economia statale di appoggiarsi in buona parte sul lavoro nero, [14]
(II) l’intreccio logoro di politiche sociali ed economiche – assolutamente inadatte a fronteggiare i flussi migratori,
(III) l’assoluta povertà delle famiglie migranti.
Analizzando la storia economica della Turchia degli ultimi decenni, i dati dimostrano che la piaga dello sfruttamento dei bambini sul mercato del lavoro è radicato e arriva a sfiorare le oltre 900.000 unità. [15] Considerato di fatto normale in talune regioni – specialmente nel sud est del paese – , tollerato nelle metropoli delle aree occidentali.
Ciò avviene nonostante:
 la Turchia abbia aderito, seppur con grande ritardo rispetto agli altri paesi firmatari, alla Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dall’Adolescenza del 1989, ratificata solo nel 1995 [16]; alla Convenzione n. 138 – sull’età minima – del 1976, adottata tuttavia solo nel 1998 [17] e alla Convenzione n. 182 – sulle forme peggiori di lavoro minorile – del 1999, adottata solo nel 2001. [18]
 le leggi interne turche abbiano imposto in applicazione delle convenzioni il limite per l’accesso al lavoro ai 15 anni [19] con l’ulteriore limite di 40 ore a settimana fino ai 17 anni. La legge sul lavoro ha inoltre fissato il limite di 18 anni per i lavori pericolosi. [20]
Tuttavia, il protrarsi della piaga è da ricercare in falle create nel diritto, più o meno di proposito, per eludere gli impegni di Ankara assunti nei confronti della Comunità Internazionale, che nel corso degli anni continuano a permettere che i diritti del fanciullo vengano violati.
Un esempio su tutti è la non applicazione delle disposizioni tutelari del diritto del lavoro ai bambini che lavorano nelle aziende agricole che impiegano, nel loro organico, personale non superiore alle 50 persone. [21] Eppure dati del Turkish Ttatistical Institute mostrano come sia proprio il settore agricolo che intrappola quasi la metà dei fanciulli tra le maglie del lavoro nero. [22]
Un altro dato da considerare è il numero ridicolo di ispettori del lavoro che operano nell’intero paese, poco meno di un migliaio! [23]
In un tale mercato, in cui il lavoro minorile è da sempre consentito e giustificato, l’entrata di un ingente flusso migratorio – composto da famiglie che hanno difficoltà a sopravvivere e ai cui figli è negato l’accesso agli studi – comporta un’iniezione di quel tipo di forza lavoro in assoluto preferita dai commercianti e proprietari d’industria senza scrupoli.
Lo scenario devastante, tracciato consapevolmente dalla Turchia e accettato dalla UE il giorno della firma dell’accordo, è quello in cui centinaia di migliaia di minori, al fine di aiutare economicamente la propria famiglia, vengono impiegati nella manovalanza più sfiancante e umiliante, per lo più nelle fabbriche tessili, nell’agricoltura, nell’accattonaggio.
Secondo le stime di Support to life nelle province di Hatay e Sanlurfa – statistiche estendibili secondo i dati raccolti da questo gruppo di studio nell’ottobre-novembre 2016 almeno alle province di Gaziantep e Adana – la percentuale di bambini siriani costretti al lavoro nero oscilla oggi tra il 70 e l’80%, di cui il 90% per almeno otto ore al giorno. [24]
I minori hanno molta più facilità di inserirsi tra le pieghe del mercato del lavoro nero, “danno meno problemi, non alzano troppo la testa. Sono schiavi perfetti che seguono pedissequamente gli ordini del padrone”, racconta Ahmad insegnante volontario in una scuola siriana a Gaziantep, “devono essere sacrificati e abbandonare l’idea di poter studiare, per poter permettere alle famiglie di sopravvivere”.
Il governo lo sa e lo accetta. È un dato di fatto.
La dimostrazione più lampante sono i quasi duemila dollari che la legge prevede come sanzione per il datore di lavoro, per ogni operaio illegale trovato alle sue dipendenze.
Gli chiedi se conoscono la normativa, i divieti e le multe. Loro annuiscono rispondendo semplicemente: is my business”, spiega Valerio Muscella fotografo italiano che si occupa ormai da due anni di quello che accade ai rifugiati in Turchia e nell’est Europa. Questo tipo di risposte, tragiche nella loro ingenua ignoranza, sono la triste dimostrazione che tutti, dal responsabile dello stabilimento alle forze di polizia, passando per l’intera popolazione locale, sono consapevoli di quanto siano nulli gli sforzi del governo nel condannare il lavoro minorile, e come questo incida sulle autorità locali che disattendono le disposizioni di legge omettendo controlli e sanzioni.
Le stesse ONG e le Nazioni Unite hanno le mani legate [25]; minacciate di essere espulse dal paese le prime, di vedersi circoscritto ancor di più il proprio campo di azione le agenzie della seconda.

 

Syrian refugees in turkey: child labour exploitation. Ph Andrea Panico

Generazioni perdute. Lo schiavismo legittimato che distrugge i sogni

L’assenza di un programma serio di scolarizzazione e l’abbandono forzato degli studi per dare sostentamento alle famiglie è una tragedia che continua ad essere totalmente ignorata dalla Turchia e dolosamente sottovalutata dalla Comunità Internazionale.
L’accordo stipulato l’anno scorso con il governo di Ankara non ha fatto altro che delegare ad un paese cieco a tali problemi, soluzioni opportunistiche il cui unico scopo continua ad essere quello di calmierare l’opinione pubblica angosciata dall’arrivo di milioni di richiedenti asilo.
Eppure i rapporti periodici delle ONG e delle Nazioni Unite sull’infanzia urlano al mondo il prezzo altissimo che i bambini continuano a pagare sin dall’inizio degli scontri e della diaspora verso l’Europa.
Seppur siano stati predisposti canali specifici per l’inserimento scolastico dei siriani, il problema è che finché il 90% di loro sarà lasciato a doversi curare della propria sopravvivenza, i minorenni saranno sempre costretti a pagare il prezzo più alto.
“Io per il primo periodo non ho lavorato, andavo a scuola.
Poi piano piano ho imparato la lingua, così ho iniziato a lavorare con gli altri siriani”
, racconta Omar che anelava in gran segreto di diventare un professionista della disciplina Parkour finita la guerra e fatto ritorno al suo paese.
Altresì Mohammad Nur, il suo amico più silenzioso, aveva aspirazioni e desideri che il conflitto si è portato via. “Noi non abbiamo tempo per studiare, noi dobbiamo lavorare. Noi lavoriamo e poi torniamo a casa.
Quando sono arrivato ho imparato la lingua e ho cominciato a chiedere nei negozi se avevano bisogno, se era così lavoravo per loro.
Le prime mansioni che ho svolto? Ho trasportato le cose che servivano da un negozio all’altro, così hanno iniziato a conoscermi. Due anni fa. Avevo 15 anni.
Poi ho iniziato a lavorare con mio padre in una fabbrica di tessuti, e sono rimasto con lui”
.
Anche per Hassan di Damasco, dodici anni, apprendere la lingua indigena ha segnato il passaggio dalla scuola al lavoro.
Ha imparato il turco per strada e questo gli ha permesso di essere assunto in nero nella bottega di Fatih, dove lavora come apprendista 12 ore al giorno, sette giorni su sette, per 300 lire al mese.
Adesso frequenta solo un’ora al giorno la madrasa, una specie di convitto dove si impartiscono gli insegnamenti del Corano.
“In Turchia c’è lavoro per tutti. Per gli sfaticati non c’è posto. Ma Hassan è un bravo lavoratore”, esclama Fatih indicando orgoglioso i manufatti in rame che hanno scolpito insieme.
Il piccolo Hassan sorride servendoci çai caldo. Ha gli occhi incredibilmente neri, il futuro ipotecato all’occidente per cui produce souvenir.
“In Europa, a voi, non piace che i bambini lavorino”. E non è una domanda quella di Fatih, più che altro un’asserzione poco convinta di cui non riesce proprio ad individuarne una base logica.
È anche molto diffusa la consuetudine per cui bambini e adolescenti lavorino “come interpreti per i turisti ed i giornalisti per 50, anche 30 lire a settimana” spiega avvilito Ahmad che come insegnante, da quando è giunto in Turchia, si prodiga affinché i piccoli siriani possano ricevere un’istruzione.
I più piccoli, invece, che non hanno trovato lavoro in fabbrica e non conoscono l’idioma raccolgono “la plastica dai cassonetti della spazzatura per venderla al riciclo”, come racconta Fadwa, due figli nelle fabbriche tessili, uno di quattro anni per strada a cercare bottiglie e l’ultima, la ragazza, a casa a imparare il lavoro domestico per andare a servire il prima possibile nelle case turche.

 

Il più vile dei mondi che abbiamo permesso: i bambini nelle fabbriche

Gaziantep è una concentrazione di aree industriali e centri agricoli tra le più importanti dell’intero paese, organizzata in tre grandi poli industriali che coprono 12 milioni di mq in cui piccole e medie imprese sono attive nel settore tessile, dei macchinari, dei prodotti chimici, delle plastiche ed in quello alimentare. [26]
È un mercato libero da tutta quella mastodontica e noiosa legislazione europea sulle procedure da seguire per lo stoccaggio dei materiali pericolosi o sulla sicurezza sul lavoro nel caso di produzione o manipolazione di sostanze chimiche. Se esistono delle regole, in questo paese e a maggior ragione nel sud est, non solo vengono ignorate ma deliberatamente denigrate.
La vecchia 147 presa a noleggio prende tutte le buche, senza risparmiarsi.
È tutto già così lontano dall’idea di metropoli ordinata e dalle strade larghe del centro città, su cui si affacciano le facciate bianche dei palazzi alternate agli edifici in perenne costruzione.
La periferia lungo la Ibrahim Tevfik Kurtlar e la Fikri Pasa è un agglomerato di case a pochi piani per lo più mai terminate, poche finestre protette da sbarre.
Alcune decine di metri prima di uno degli edifici, che si rivelerà la prigione per decine di bambini siriani, pochi frame di uno scivolo per bimbi sono come un laccio intorno alla gola. Sembra un’immagine rubata ad un backstage, dove un cameraman distratto ha allargato troppo la ripresa mostrando la ricostruzione artificiosa di una struttura da favola, tradendo la naturalità e la veridicità delle stessa pellicola.
Poi entriamo.
Tra le quattro mura di un garage riorganizzato a centro di produzione tessile, ci sono trenta persone di cui 15 bambini provenienti tutti da Aleppo e tutti al di sotto dei 14 anni.
75 lire turche alla settimana per coloro che tagliano e cuciono, 300 lire turche per i siriani adulti dietro le macchine da cucire.
Dalle otto del mattino alle otto di sera. Cinque, a volte sei giorni a settimana.
È poco denaro, pochissimo, ma è necessario alle famiglie che sopravvivono fuori dai campi senza l’aiuto del governo.
Nel caso in cui bambini siano arrivati soli, invece, tale denaro permette ai loro genitori rimasti in Siria di pagare uno smuggler che gli consenta di raggiungere la Turchia. I figli fungono allora da apripista.
I genitori, che hanno perso tutto a causa del conflitto armato che sta devastando il paese, possono infatti permettersi di pagare ai trafficanti un solo transito. “Ripongono così tutte le loro speranze nelle mani dei loro figli che arrivati in Turchia si adoperano nel trovare un lavoro il più velocemente possibile”.
Tuttavia, la distruzione dei normali circuiti di invio e ricevimento del denaro comporta un ulteriore problema, ovvero la presenza obbligatoria di un intermediario che si adoperi nel trasferire i guadagni dei bimbi alle loro famiglie.
Un businessman” quindi “si occupa di far arrivare il denaro che guadagnano in Siria, nelle mani delle loro famiglie. D’accordo con il padrone della fabbrica, in alcuni casi è la stessa persona, l’uomo contatta uno dei suoi uomini fidati ad Aleppo ordinando di consegnare alla famiglia il denaro che il loro bambino ha guadagnato a Gaziantep. Trattenendo, logicamente una percentuale sul già misero salario ”, ci spiega Ms., siriano arabo e fixer di professione da quando è stato costretto alla fuga in Turchia.
Qui cuciamo per differenti brands. Può essere una t shirt o una tuta che viene imbastita in serie e in grandi numeri, e su cui poi prima viene appuntato un marchio, la settimana successiva un altro. Quando una ditta ci contatta, se abbiamo già il prodotto lavorato, apponiamo la loro etichetta e gli inviamo i pacchi con la merce. Il gioco a questo punto è fatto”.
Nizar, siriano, ci illustra il ciclo produttivo tenendo tra le mani un pantaloncino per bimbi destinato alla ditta Kidsro [27], specializzata in vestiario per bambini, da cui ha ricevuto l’ultima richiesta. Fiero del suo lavoro simile a quello di un carceriere, è lui il responsabile dei ragazzi insieme al proprietario della fabbrica.
La merce prodotta “viene quindi spedita a Istanbul e/o Ankara per poi finire sui mercati europei e della Russia , soprattutto in Italia, Francia e Russia”.
Stessa destinazione per le merci prodotte dalle altre fabbriche che visiteremo.
“Me li date voi i soldi per prendere in affitto una casa? No, no che non posso mandarlo a scuola. Lui deve lavorare. Mi deve aiutare perché ormai sono stanco e comincio a invecchiare. Ho continui problemi con la schiena”, esclama Mosa continuando a caricare mangimi e sabbia con suo figlio di sette anni.
Tutte le vie della periferia sono un dedalo di vergogna e tristezza. Scheletri di fabbricati in cemento armato adibiti a depositi, dove fanno capolino adolescenti curiosi prontamente riportati all’ordine dal padre o dal padrone.
Uno di loro, proprietario di una fabbrica di indumenti per bambini, la Ifba & Alfa – Kids Pro [28], apre magistralmente il suo elogio alla politica turca di accoglienza degli immigrati: “nessuno usa bambini siriani nei suoi locali di produzione. Nessuno”, l’antitesi del logico, il trionfo del populismo nazionalista che sta conducendo la nazione verso la deriva autoritaria.
“Il governo turco da denaro alle famiglie siriane, ma loro ne vogliono sempre di più ed è per questo motivo che obbligano i loro bambini a lavorare nelle fabbriche”.
Violente menzogne che stanno di fatto giustificando l’assunzione in nero dei piccoli lavoratori siriani costretti a lavorare per dare sostegno alla propria famiglia che spesso versa nella più totale indigenza.
Dopo settimane nel sud est turco, al suono fastidioso di queste parole mi vengono in mente quelle ben più dure e scelte di Gino Strada: “Ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi”.
Altra fabbrica, stesso girone.
I vapori prodotti dai macchinari, utilizzati da Suhail per stirare gli abiti che tra qualche mese finiranno sui nostri mercati, rende surreale l’enorme stanzone in cui un bambino di poco più di una decina di anni sta pregando con il capo rivolto alla Mecca. Ibrahim ha dieci anni ed è in Turchia da appena tre mesi, anche i suoi due fratelli lavorano come lui schiavi dell’industria tessile. “La mia famiglia mi ama. Io li amo molto. Per questo sento che li devo aiutare lavorando”.
Quanti bambini, troppi.
Anche Ahmed è siriano, non più di dieci o dodici anni ad occhio:
“Abbiamo vissuto, io e la mia famiglia, nel campo profughi a Karkamis e lì dentro frequentavo la scuola. Poi ho iniziato a lavorare.
Non ho molti amici qui se non i bambini che lavorano con me. Lavoro da tre mesi, dalle 8 di mattina alle 7 di sera con un’ora di pausa. La domenica ci riposiamo”.
Richiama alla mente la sua terra e la sua vita, tutti i passati prossimi strappati dalla guerra, con un solo colpo di mano alla sua gente. “Io ricordo tutto della Siria: casa mia, gli amici. Il mio paese è un paradiso, e il popolo siriano è meraviglioso”.
Guarda le scarpette sporche, si porta le mani alle tasche e comincia a giocare con le dita. Torna a guardarci, “io sognavo di ricevere un’ottima istruzione e di diventare un maestro o un dottore. Mi piacerebbe ancora seguire le lezioni. Ma devo lavorare per vivere e non posso proprio frequentare una scuola adesso.
Perché dobbiamo vivere io e la mia famiglia. Noi siamo in sette e le cose qui costano molto.
Grazie a Dio ho un lavoro. Io non ho altra scelta se non lavorare”.

L’unico lavoratore anziano mi offre una sigaretta appena rullata, rifiuto ringraziando, e il fumo bianco prodotto in lunghe boccate si mischia a quello delle saldatrici e del the scuro che ci hanno offerto da bere i proprietari della fabbrica.
“La maggior parte di loro dorme nella fabbrica in cui lavora”, esclama Ms. mentre continua a fumare, sfilare ed indossare gli occhiali nel tentativo di pulirli dalla polvere dell’ambiente insalubre. Lo dice con tale naturalezza Ms. che sembra quasi normale, che viene quasi da stupirsi delle facce sfregiate dall’acne e dalle tossine respirate 24 ore al giorno, degli sguardi persi nel vuoto nel ritagliare le stoffe inginocchiati sul pavimento.
Sembra quasi normale.
Un’ultima fabbrica, un ultimo circo degli orrori. Ancora prodotti per bambini cuciti da bambini.
Fuori il sole sta venendo giù.
Penso che chi è rinchiuso lì dentro debba completamente perdere la nozione del tempo. Che nella ripetitività dei gesti compiuti in catena di produzione vivere e sopravvivere assumano lo stesso medesimo significato.
Immagino che in quell’apnea di violazioni di diritti umani e del fanciullo, la sola strategia per non affondare e restare a galla debba essere escogitare un piano per una fuga.
Sbaglio.
Per questi bambini l’impiego nelle fabbriche è essenziale per dare sostentamento alle proprie famiglie o, cosa ancor più triste, per potersi ricongiungere con loro.
Nessuno ha intenzione di abbandonare il proprio lavoro.
È un circuito perverso, la genesi di una sindrome di Stoccolma, un cordone ombelicale che li lega ad una madre dannata.
Affondare nei ricordi, è la sola distrazione che è permessa ad ognuno di loro: le famiglie ancora intere, i giochi con gli amici, la scuola e “quando ci arrampicavamo sui muri per fare arrabbiare il maestro”.
Bassem è da tre anni in Turchia, è arrivato qui quando ne aveva sei. Da due mesi non frequenta più la scuola.
Voltandosi verso di noi china il viso.
La luce naturale alle nostre spalle, che penetra da una fessura della porta del garage senza finestre, infastidisce i suoi occhi. Le sue pupille dilatate sembrano essere da sempre abituate al barlume della luce fredda e artificiale delle lampadine al neon, che quasi spariscono nell’oscurità dell’autorimessa.
È imbarazzato, sussurra. Quindi infine con tono deciso, ricusando ogni desiderio, esclama:
“Io non ho sogni, non mi piacciono i sogni”.

 

 

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