Racconti dai confini con l’Ucraina
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«Lavoro con i rifugiati da quasi 40 anni e raramente ho visto un esodo di persone così incredibilmente veloce», ha affermato pochi giorni fa l’Alto Commissario dell’UNHCR Filippo Grandi rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Ad oggi, sono arrivate ad oltre un milione e mezzo le persone in fuga dall’Ucraina. Attualmente il paese maggiormente interessato è la Polonia (1.027.603), seguito dall’Ungheria (180.163), Slovacchia (128.169), Moldavia (82.762) e Romania (78.977). Una minima parte dei civili in fuga ha cercato infine rifugio nella Federazione Russa (53.300), il paese causa del conflitto, e in Bielorussa (406), paese che ha lasciato il fianco meridionale all’armata russa per l’invasione dell’Ucraina 1. Il numero è destinato a salire rapidamente dal momento che sono moltissime le persone ancora bloccate in territorio ucraino. A Medyka, cittadina di confine tra Polonia e Ucraina particolarmente interessata dal flusso migratorio, il comune denominatore di molti dei racconti di chi è riuscito ad oltrepassare le frontiere sono i lunghi tempi di attesa, da una parte per riuscire a salire su un treno a Kiev, dall’altra per varcare il checkpoint, a pochi passi dalla salvezza di un’Europa fino a pochi giorni fa ad un palmo di mano.
A differenza di altre crisi, un’ulteriore caratteristica di quanto sta accadendo nelle diverse zone di confine è questa: anche se gli aiuti sembrano sincronizzati, abbastanza forti ed efficaci, coloro che scappano restano quasi tutti poco tempo nei primi paesini europei. In Romania, vicino Sighet Marmației, il sindaco ancor prima dello scoppio del conflitto aveva individuato delle zone dove ospitare la popolazione in fuga che però, secondo quanto dichiarato, sarebbero rimasti di fatto vuoti. Infatti, se una parte di coloro che arriva decide di affittare in autonomia una casa come sta avvenendo a Varsavia, in Polonia, probabilmente anche in attesa e nella speranza che il conflitto possa terminare a breve, la maggior parte di coloro che stanno entrando in questi giorni in Romania, Polonia e Ungheria lascia invece il paese nelle successive ore a bordo della propria macchina o dei mezzi messi a disposizione dai governi o dalle associazioni.
Tra chi resta intrappolato dentro e chi ce la fa ad uscire c’è spesso solo quella sottile differenza legata alla fortuna di abitare in una città non ancora sotto l’assedio russo, geograficamente ancora non coinvolta nell’invasione rispetto ad un’altra. Altre volte la salvezza è legata alla possibilità di avere a disposizione denaro sufficiente, altre ancora dipende dal colore del passaporto. In merito alla nazionalità dei civili in fuga, in particolare, la forza virale dei social network è riuscita a fare emergere l’atteggiamento aggressivo dei soldati ucraini che hanno favorito prima il passaggio dei loro connazionali discriminando persone di origine africana oppure orientale che si trovano nel paese per lavoro, turismo, studio etc., o perché lì avevano deciso di chiedere asilo. È la storia di Alexander, di nazionalità nigeriana, che studiava insieme alla sorella in Ucraina rispettivamente medicina ed economia. «Mia sorella è riuscita a raggiungere lviv (Leopoli) e da lì ad entrare in Polonia dove l’aspettava nostro fratello che vive in Germania» racconta sorseggiando un tè offerto dai volontari che al checkpoint di Sighet si adoperano notte e giorno per supportare chi entra in territorio rumeno. «Io ho avuto problemi con i soldati ucraini e per questo ho deciso di andare verso la Romania, dove non ho avuto problemi ad entrare».
Aisha, una sua connazionale, racconta che dopo aver visto i video condivisi sui social di episodi di violenza da parte dei soldati ucraini al confine con la Polonia, ha deciso di non provare neanche ad entrare da quelle frontiere, ma di decidere di dirigersi senza esitazioni verso quella rumena. Sotto lo stand allestito nei pressi del checkpoint di Sighet, appena pochi minuti da quel ponte dalla struttura in ferro coperto da pesanti e vecchie assi di legno, che racconta gli sguardi di chi ha lasciato la propria quotidianità oltre il fiume Tibisco per cercare rifugio nel vecchio continente, anche Mohamed e Alì studenti egiziani tentano di riscaldarsi. «Studio medicina, lui per diventare un odontoiatra», racconta Mohamed mentre le dita della mano destra scorrono veloci sullo smartphone e l’amico alza il bavero del giubbotto sprofondando dentro ore di privazione di sonno causato dai bombardamenti russi e dall’incubo di mettersi in salvo: «Al checkpoint polacco facevano passare solo gli ucraini, i soldati erano aggressivi. Avevamo paura, per questo abbiamo deciso di scendere verso sud ed entrare dalla Romania».
L’amarezza che impregna i racconti legati alla difficoltà di uscire dall’Ucraina sono poi, in alcuni casi, ulteriormente appesantiti dai sempre attuali problemi di razzismo e xenofobia in cui sono coinvolti in primis i gruppi nazionalisti di ultra destra di alcuni dei paesi in cui arriva la popolazione in fuga. È in parte la storia di Ibrahim, di origine somala, che nel freddo pungente della temperatura ormai scesa sotto lo zero di Medika si avvicina chiedendo solo di potere stare con noi. Ha paura di essere assalito e picchiato da uno dei tre uomini che girano senza meta nel parcheggio di fronte al supermercato, mischiandosi a giornalisti e volontari, e che ricordano il triste episodio della sera prima quando un gruppo di persone incappucciate ha minacciato i volontari che erano seduti in un pub della città.
Ibrahim si appresta a passare la terza notte all’addiaccio, è smarrito, probabilmente con un forte trauma da stress post traumatico che lo porta a chiederci – dopo qualche ora di chiacchiere – se ci siamo conosciuti ieri o oggi. Quando finalmente decide di raggiungere il centro di primo soccorso di Przemysl organizzato dai volontari, dopo neanche mezz’ora una ragazza gli comunica che ha un posto su un pullman diretto a Berlino.
Le vite di chi si perde e di chi fugge si intrecciano irrimediabilmente con quelle delle comunità che in queste ore si stanno mobilitando per offrire il loro sostegno. E’ la storia di Irina che vuole partire per l’Italia e chiedere aiuto allo stesso convento che l’aveva ospitata vent’anni fa quando ancora giovane aveva iniziato a lavorare come badante in una piccola cittadina della Liguria, inviando poi il denaro alla famiglia rimasta in Ucraina. O quella di Sofia diretta in Portogallo, mentre ringrazia e benedice al telefono i vecchi amici emigrati decenni prima. C’è chi sale su un pullman diretto a Berlino sperando nel sostegno della comunità locale. Aiuto che servirà soprattutto nelle prossime settimane, quando il flusso migratorio probabilmente aumenterà, cambiando e ridefinendo le proprie mete di destinazione. Secondo l’UNHCR le ultime stime attestano a 5 milioni i possibili rifugiati. E’ tuttavia difficile ipotizzare se l’invasione russa si estenderà in altre zone del paese e quali conseguenze ci saranno.
A fronte di un così ingente flusso di persone in movimento, in previsione il più grave dalla Seconda Guerra mondiale 2, destinate a raggiungere ogni angolo del vecchio continente, è necessario che l’Unione europea ed i governi applichino misure concrete di accoglienza e di accesso ai diritti sociali (quali scuola, sostegno psicologico, lavoro ecc.), non dimenticando tuttavia le persone delle altre rotte migratorie e nazionalità, affinché non si creino ulteriori sofferenze e nuove disparità tra chi fugge.