reportage,  Turchia. Io non ho sogni

L’accordo UE – Turchia: genesi, applicazione, criticità a due anni di distanza

Eppure nel suo viaggio Ulisse fu accolto, nutrito e lavato prima ancora che gli si chiedesse quale fosse il suo nome il paese in cui è nato”.
Crifiu
Apriti cielo sulla frontiera, sulla rotta nera una vita intera. Apriti cielo per chi non ha bandiera, per chi non ha preghiera, per chi cammina dondolando nella sera”.
Alessandro Mannarino


Ad oggi [1] la Turchia viene definita come il paese più accogliente del mondo: il primo [2] per numero di richiedenti protezione internazionale che sfiora i 4 milioni di persone [3], il terzo se si considera il rapporto tra il numero di accolti e la propria popolazione nazionale (1 su 23) [4].

Considerate le ultime stime ufficiali fornite dal Turkish Directorate General of Migration Management (D.G.M.M.), a fine luglio del 2018 si contavano 3,9 milioni di cittadini stranieri richiedenti protezione internazionale in Turchia [5]. La maggior parte di loro sono siriani (3.542.250 [6]) cui è stata concessa la protezione temporanea, seguiti da richiedenti asilo e rifugiati provenienti da diversi paesi, soprattutto Iraq, Afghanistan, Iran e Somalia (360.608 [7]). Un ulteriore mezzo milione di persone straniere (718.297 [8]) vivono attualmente in Turchia con altri tipi di permessi, tra cui quello umanitario.
Eppure, a ben guardare, i richiedenti asilo siriani registrati in Turchia erano meno di 150.000 [9] all’inizio del 2013 e poco più di 565.000 all’inizio del 2014 [10]. Cosa è cambiato? Cosa è successo in questi anni? Il cuore dei turchi si è aperto spontaneamente alla causa del popolo siriano (la cui maggioranza di loro appartiene tuttavia alla stessa minoranza curda vessata dal presidente Erdogan da decenni), oppure è solo la diretta conseguenza di una manovra politica studiata e strategicamente ben mirata? Che peso hanno tutto quelle vite sul piatto della bilancia nel grande scacchiere della politica internazionale?

PARTE I

Guerra! La genesi dell’esodo mediorientale

Siete tutti colpevoli, ognuno di voi è colpevole di quello che è successo al mio popolo e delle pene che continua a patire.
Tutti: Organizzazioni non Governative, Nazioni Unite, nessuno di voi ha il diritto di tirarsene fuori“.
Di tutti i giorni spesi in Turchia, saranno le parole del combattente Annan a rimbombare sulle immagini dei bambini dietro le macchine da cucire e a martellarmi nella testa tenendomi sveglio la notte.
Tutti responsabili, nessuno escluso“, scriverò a lettere cubitali e col colore rosso sulla moleskine, immaginando gli orrori di una guerra i cui effetti intuivo ogni giorno sempre di più, guardando gli occhi delle donne in fila a Idomeni per avere un po’ di cibo per i loro bambini.

Venti di guerra. E’ il 15 marzo del 2011 quando, sulla scia delle contestazioni che coinvolgono numerosi paesi del Medio Oriente e del nord Africa, i venti della primavera araba iniziano a soffiare anche sulla Siria. La popolazione scende in piazza contro il presidente Bashar al – Assad e la folla chiede a gran voce le sue dimissioni e la fine dell’egemonia del partito Bath [11]. E’ l’inizio della Al-Ḥarb al-ahliyya al-sūriyya che sfocerà nel giro di un anno nella guerra civile che tuttora continua a lacerare il paese.
Nel 2013, l’ascesa del fondamentalismo islamico imposto dalle milizie dell’ISIS [12] guidate da Al-Baghdadi, aggrava la situazione minando ulteriormente la stabilità del paese che si avvia verso quella che sarà definita la “balcanizzazione del territorio siriano [13]”.

L’inizio dell’esodo. Con l’espansione del califfato in Siria e in Iraq, e la proclamazione dello “stato Islamico” nella seconda metà del 2014, inizia il grande esodo della popolazione siriana che si riversa nei paesi più prossimi, la Turchia, il Libano e la Giordania. Coloro che cercano rifugio nel vicino Lubnān [14] sono soprattutto persone che non hanno denaro sufficiente per intraprendere il viaggio verso l’Europa o che, molto più semplicemente, sperano in una rapida risoluzione del conflitto per tornare nelle loro case.
Il flusso migratorio generato è il più imponente dal secondo dopoguerra ad oggi.
Basti pensare che nel 2015 – l’anno in cui l’occidente si fingerà sorpreso nella scoperta del “problema” dei profughi in fuga dal conflitto mediorientale – i siriani che hanno chiesto asilo in Europa sono stati 362.725 [15], il numero di coloro che hanno chiesto invece protezione internazionale nei paesi limitrofi è stato rispettivamente di due milioni e mezzo di persone in Turchia, di 1.000.000 in Libano e di 634.000 in Giordania, mentre 6.600.000 risultano gli sfollati interni [16].
Al pari dei siriani, anche la popolazione irachena iniziava la sua diaspora che
avrebbe portato a registrare, sempre nel 2015, 121.585 richiedenti asilo in
Europa [17] e 4 milioni e quattrocentomila sfollati interni [18].
Il flusso migratorio verso l’occidente, inoltre, segue una rotta già percorsa da tempo da altre popolazioni mediorientali che in fuga dai conflitti interni continuano a sperare di poter cercare riparo in Europa. A fuggire sono soprattutto gli afgani – dalla violenza di quello che resta di un paese tormentato dai postumi della guerra iniziata da Bush nel 2001 – e i pachistani – dal rischio costante legato alla forte instabilità politica nel paese attanagliato nelle morse del terrorismo. Attraversando l’Iran, entrano in Turchia da ovest svalicando le alte montagne della provincia di Van. Da lì, un ultimo sguardo alle montagne innevate che avvolgono “la perla dell’esti [19]” e poi l’inizio del viaggio verso l’occidente.

Il corridoio turco e la trappola greca. Per chiunque partendo da oriente voglia raggiungere l’Europa, la Turchia, crocevia per secoli delle antiche rotte commerciali verso il profondo e lontano oriente, resta lo snodo principale, la porta a vetri da cui sbirciare l’occidente.
Nonostante confini via terra con la Bulgaria e con la Grecia, la militarizzazione delle frontiere ha fatto sì che la maggior parte dei richiedenti asilo
raggiungessero la penisola ellenica esclusivamente via mare arrivando a contare oltre ottocentocinquantamila arrivi via mare nel 2015 [20]. Principalmente dalle zone costiere di Canakkalè, Izmir, Didim, Bodrum e Kas, con piccole imbarcazioni di fortuna, salendo in 30 o 40 sui gommoni, nel tentativo di raggiungere le vicine isole di Agathonisi, Kos, Leros, Lesvos, Kastelorizo, Samos e Chios. Poi dritti, verso la terraferma per iniziare la balkan route, passando dallo snodo ferroviario di Idomeni che collega le città di Salonicco, Skopje e Belgrado.
Il flusso migratorio verso il vecchio continente prosegue attraverso la rotta balcanica senza interruzioni fino al novembre del 2015, quando la Slovenia (il 18.11.2015) su pressioni dell’Austria decide arbitrariamente di consentire il passaggio ai soli siriani, iracheni e afgani, che siano in possesso di un documento rilasciato dalle autorità greche che ne attesti la nazionalità. A catena anche gli altri paesi di transito, Croazia, Serbia e Macedonia impongono le medesime misure restrittive [21].
E’ l’inizio del caos in terra ellenica, il sorgere dell’accampamento informale di Idomeni e di una moltitudine di settlement satellite. Senza più aver possibilità di proseguire, le tende dei migranti che un tempo si fermavano solo qualche notte, poche ore per riprendere fiato, diventano, da una parte, il simbolo della cinica indifferenza dei nazionalismi occidentali, dall’altra del timore di Bruxelles di ulteriori attacchi alla propria fortezza.
Nel febbraio del 2016 la Macedonia inizia ad intermittenza le prove tecniche di chiusura totale della frontiera, consentendo l’entrata a sole 580 persone [22].
Il 9 marzo, a seguito della decisione di Slovenia, Serbia e Ungheria di chiudere le proprie frontiere [23], anche la Macedonia il 9 marzo chiude definitivamente ogni passaggio ai richiedenti asilo. Come in un imbuto in cui, nonostante sia stato ostruito il fondo, si continua a versare acqua, la Grecia diventa in pochissimo il più grande campo profughi d’Europa. Il flusso migratorio proveniente dalla Turchia non accenna infatti ad arrestarsi e coloro che arrivano restano bloccati al confine macedone senza riuscire ad uscire dalla territorio ellenico.
Gli stati membri dell’UE, nel frattempo, lavorano ad una soluzione rapida ed efficace.

PARTE II

L’inizio del processo di delocalizzazione dei diritti degli esseri umani e di esternalizzazione delle frontiere europee: l’accordo stipulato dall’Unione Europea con la Turchia

La risposta alla “crisi greca” arriva il 18 marzo del 2016 quando, a seguito dell’incontro tra i membri del Consiglio Europeo e la controparte turca, viene raggiunto un accordo sulla gestione del flusso irregolare di migranti diretti verso l’Europa [24]. Un’intesa largamente contestata che punta ad esternalizzare l’ingente richiesta di protezione internazionale dei migranti provenienti dal Medio Oriente, al fine di delocalizzare il “problema” con una soluzione tanto radicale quanto pericolosa in termini di violazione del diritto comunitario e internazionale.

2.1 Gli impegni assunti dalla Turchia

A) Il blocco del flusso migratorio proveniente dal medio oriente e diretto in Europa.
I termini dell’accordo sanciscono l’impegno della Turchia a bloccare il flusso migratorio che, transitando dalla Grecia, si dirige verso l’Europa occidentale adottando “qualsiasi misura necessaria per evitare nuove rotte marittime o terrestri di migrazione irregolare dalla Turchia all’UE” e collaborando “con i paesi vicini nonché con l’UE stessa a tale scopo  [25]”.
Per fare ciò Erdogan rafforza in primis i propri confini terrestri a sud est, continuando la costruzione di un muro, che impedisca ai siriani in fuga dal conflitto di entrare in territorio turco, alto tre metri, e lungo 800 km la cui costruzione è terminata nel 2017 [26]. Lungo i pochi chilometri non protetti dal muro, il confine è difeso da fossati e recinti presidiati ventiquattro ore al giorno con l’ausilio di telecamere e droni [27].
Nel silenzio internazionale dei media, negli ultimi anni numerose centinaia di richiedenti asilo sono stati trucidati dai militari turchi mentre tentavano di entrare “illegalmente” in Turchia superando il confine siriano [28]. Tale modalità omicida di dissuasione è documentata dagli osservatori internazionali come una prassi adottata dai militari turchi almeno dall’agosto del 2015, che ha causato sino ad oggi un numero di morti stimati non inferiore alle 400 persone, di cui il 20% minorenni [29].
Relativamente agli arrestati per ingresso o soggiorno irregolare, i dati del Ministero dell’Interno turco parlano di centinaia di migliaia di migranti, con un trend in costante aumento nell’ultimo quadriennio (+211% dal 2014 al 2018 [30]), che coinvolge soprattutto la popolazione siriana, seguita da quella afghana, pakistana e irachena. Un recente studio, indicava più di 250.000 casi di respingimenti diretti e illegali operati alla frontiera siriana durante il solo anno del 2017 [31].
In parallelo, la costruzione di un altro muro la cui fine dei lavori è prevista per la primavera del 2019, “difenderà” 144 dei 499 km del confine con l’Iran [32].

In secondo luogo Erdogan incrementa esponenzialmente i controlli lungo i chilometri di costa antistante le isole elleniche. Il blocco navale viene supportato da imbarcazioni della NATO [35] che, navigando in acque internazionali, allertano la guardia costiera turca nel momento in cui avvistano imbarcazioni che trasportano migranti affinché li obblighino a ritornare nei porti turchi.
Allo stesso tempo, viene denunciata l’attività illegittima di Frontex che navigando in acque territoriali greche, fermerebbe i natanti dei migranti per riconsegnarli, minacciandoli con le armi, alle navi della Guardia Costiera turca [36].
B) Le riammissioni in Turchia.
Mi hanno riportato in Pakistan, sono a Quetta. Ahmad è rimasto in Grecia, ha detto che era un minorenne e l’hanno fatto restare. Io ho sbagliato tutto, ho detto che avevo già compiuto i 18 anni“.
La connessione Skype va e viene, le immagini che saltano mostrano solo un locale affollato.
“Non ho presentato domanda di asilo perché una ragazza di [Praxis] mi ha detto che c’era tempo, che potevo aspettare e sarebbe andato tutto bene. E invece eccomi qui”.
Ahmad era tra il primo gruppo di persone ad essere deportato in Turchia.
“Ho sperato che non stesse succedendo davvero, e invece ci hanno picchiato e costretti a salire su una nave diretta di nuovo in Turchia senza sapere neanche il perché. Nel carcere turco ci hanno continuato a picchiare.
Mi hanno dato la possibilità di fare solo una telefonata, dopo avermi chiesto dove dovevano riportarmi. Io sono un hazara e in Afghanistan non potevo tornare, così hanno pensato bene di spedirmi in Pakistan [37]”.
La trave portante dell’accordo prevede che tutti coloro che riescono, nonostante tali misure di militarizzazione dei confini, a raggiungere la Grecia dopo il 20 marzo e che “non faranno domanda d’asilo o la cui domanda sia ritenuta infondata o non ammissibile ai sensi della direttiva procedure” vengano “rimpatriati in Turchia  [38]”.
I migranti economici.
La riammissione coinvolge quindi tutti i migranti che, giunti irregolarmente sul suolo greco, non presentano domanda di asilo e vengono pertanto considerati migranti economici irregolari.
I richiedenti asilo.
La riammissione forzata viene ulteriormente prevista per chiunque – ad eccezione dei vulnerabili – transitato dalla Turchia sia giunto in Grecia presentando una domanda di asilo che è stata ritenuta infondata o inammissibile.
Su questo secondo concetto – di inammissibilità della domanda – si costruisce un meccanismo che fa sì che le richieste di asilo presentate in Grecia vengano esaminate con una procedura accelerata che non prevede una loro valutazione nel merito. Accertato che il richiedente è transitato dalla Turchia, infatti, la sua domanda in applicazione dell’art. 33 della Direttiva 2013/32/CE [39] viene ritenuta inammissibile. Ciò in virtù del fatto che la Turchia viene considerata da adesso in poi un paese terzo sicuro e il paese in cui pertanto il richiedente avrebbe dovuto richiedere protezione internazionale. Unica eccezione resta la possibilità per il richiedente asilo di riuscire a dimostrare in questa fase preliminare, che la Turchia non sia per lui un paese sicuro.
A dare maggiore vigore all’accordo, è la stessa Grecia che il 3 aprile del 2016 emana la legge n. 4375 introducendo un ferreo meccanismo di valutazione rapida della domanda che si basa sul mero accertamento della sua ammissibilità (valutando se il richiedente sia o meno passato dalla Turchia) senza entrare nel merito della richiesta.
Ulteriori modifiche sono in cantiere per mano del Governo greco che “sta lavorando a una revisione della legislazione in materia di asilo in Grecia, con modifiche […] che potrebbero contribuire a ridurre i ritardi […] e prevedere scadenze più stringenti per una causa dinanzi all’Alta Corte amministrativa e per l’esame delle domande successive [40]“.
Le prime riammissioni degli irregolari arrivati in Grecia dopo il 20 marzo del 2016 (di coloro che non hanno presentato domanda di asilo e di coloro che hanno presentato domanda di asilo che è stata tuttavia ritenuta infondata o inammissibile) vengono eseguite a partire dal 4 aprile del 2016 [41], nell’ambito dell’accordo di riammissione bilaterale preesistente tra la Grecia e la Turchia del 2012 [42]. A partire dal 1° giugno del 2016, le riammissioni vengono invece effettuate nell’ambito dell’accordo di riammissione precedentemente stipulato dall’Unione Europea con la Turchia nel 2014 [43] – la cui entrata in vigore è anticipata ad hoc dal Consiglio [44] rispetto a quanto originariamente previsto (1° ottobre del 2017) – che impegna la Turchia a consentire la riammissione di “tutti i cittadini di paesi terzi o gli apolidi che non soddisfano o non soddisfano più le vigenti condizioni di ingresso, presenza o soggiorno” in Grecia, e che “sono entrate irregolarmente […] dopo aver soggiornato nel territorio della Turchia o esservi transitate” .
Un’analisi effettuata dall’UNHCR sulle persone riammesse dall’aprile del 2016 al 30 settembre del 2018 in virtù dell’accordo UE-Turchia, evidenzia che la maggioranza di coloro che sono stati costretti a tornare in Turchia sono uomini (91%), seguiti da una bassa percentuale di bambini (5%) e di donne (4%), per lo più di nazionalità pachistana (il 38%), quindi dai siriani (19%), algerini (11%), afgani (6%), bangladesi (6%), iracheni (4%), marocchini (3%), iraniani (3%), egiziani (1%), nigeriani (1%) [45]. Il 28% non aveva espresso la propria volontà di chiedere asilo, il 6% ha ritirato la propria volontà di presentare domanda di asilo e il 13% ha ritirato la richiesta di asilo, il 2% aveva ricevuto una decisione negativa sulla domanda di asilo in 1a istanza e il 37% in 2a istanza.

2.2 Do ut des

E in cambio? Quale è stato il prezzo che i governi europei hanno pagato nel delegare al sultano la gestione dell’emergenza?
La U.E. promette innanzitutto il resettlemnet della metà dei siriani riammessi in Turchia: per ogni siriano deportato dalla Grecia, uno sarà ricollocato in un paese membro con un limite iniziale di 72.000 posti per il 2016. Tralasciando il fatto che allo stato attuale solo 16.705 siriani siano stati ricollocati (dal 4 aprile del 2016 al 4 ottobre del 2018 [46]), tale meccanismo presenta dei forti profili di illegittimità poiché differenzia tra nazionalità dei richiedenti asilo creando di fatto rifugiati di serie A e rifugiati di serie B. Inoltre permettendo la ricollocazione dalla Turchia dei soli siriani, vengono esclusi proprio tutti coloro che a differenza loro non godono del regime di protezione temporanea.
I governi dei paesi europei si impegnano, inoltre, ad incrementare notevolmente il finanziamento europeo di sostegno all’accoglienza dei rifugiati in Turchia [47], con un versamento complessivo di 6 miliardi di euro [48].
A ciò si aggiunge la ripresa delle trattative per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea e l’impegno per una rapida liberalizzazione dei visti.
Il finanziamento UE dei controlli dei confini [49].
Un’indagine condotta da Politiken e Dainwatch, in collaborazione con European Investigative Collaborations EIC e The Black Sea, approfondita ulteriormente dallo Spiegel, ha dimostrato che l’Unione Europea ha aiutato la Turchia, nella sua scellerata violenta azione di pattugliamento dei confini mirata al contrasto del flusso migratorio, con un finanziamento di oltre 80 milioni di euro per l’acquisto di armi e sistemi di sorveglianza e difesa.
I primi 35,6 milioni di euro sono stati trasferiti da Bruxelles alla società turca Otokar per l’acquisto di 82 veicoli militari corazzati che adesso vengono utilizzati nel pattugliamento del confine siriano.
Ulteriori 50 veicoli pesantemente blindati sono stati finanziati interamente dalla UE per pattugliare il confine turco-greco. La gara, del valore di circa 29,6 milioni di euro, è stata vinta dalla società Aselsan (di proprietà per l’84% dell’esercito turco) che ha fornito tecnologia ed elettronica mentre i veicoli veri e propri sono della HIZIR, il cui proprietario è un ex parlamentare del partito dell’AKP di Erdogan.
Infine per la difesa del mar Egeo e impedire gli arrivi via mare in Grecia, la UE ha versato un’ulteriore ingente somma all’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM), che ha impiegato tale denaro acquistando per 17,9 milioni di euro sei guardacoste classe SAR per la Guardia Costiera Turca dalla società olandese Damen Shipyards [50].

PARTE III

Le maggiori criticità di un accordo a tutti i costi
3.1 Principi comunitari e gli obblighi degli Stati Membri

Nel “progress report” dell’Agenda Europea sulla Migrazione del marzo del 2018 [51] prodotto dalla Commissione Europea viene affermato che “procedure di asilo accelerate sono indispensabili per aumentare il ritmo dei rimpatri in Turchia”, e che nel dare ulteriore seguito all’accordo “le autorità greche dovrebbero accelerare l’attuazione dei rimpatri in Turchia, in particolare introducendo modifiche alla legislazione greca e finalizzando accordi con l’EASO per consentire operazioni efficaci in Grecia e un sostegno ulteriore alle Commissioni di Appello”.
Quanto si legge è solo la naturale conseguenza della politica adottata dai governi dell’Unione di esternalizzazione dei propri confini, che ha portato a delegare a paesi terzi di dubbia sicurezza in termini di rispetto dei diritti dell’uomo, la responsabilità della salvezza o della morte di migliaia di uomini e donne.
Il leitmotiv dell’ultimo quadriennio è stata l’accesa diatriba tra quanto proposto, e più volte attuato, dai capi di stato mediante accordi bilaterali per il rimpatrio dei richiedenti asilo che cercavano di raggiungere le coste dell’Europa, da una parte, e le pronunce della CEDU, dall’altra, che continuano a ricordare il rispetto delle norme internazionali e comunitarie sull’effettivo accesso alla protezione internazionale, in particolare in merito al divieto di non refoulment e di respingimento verso paesi di origine o di transito non sicuri.

3.1.1 Violazione del divieto di non refoulement da parte della Grecia

Dietro una formulazione così vaga dell’accordo in questione, che prevede la riammissione per coloro che transitando dalla Turchia e arrivando in Grecia non hanno fatto domanda di asilo o per coloro che l’hanno presentata ma è stata rigettata o ritenuta inammissibile, si nasconde il concreto pericolo di una violazione del principio del non refoulement che prevede il divieto di espellere o respingere “in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche [52]”. Tale minaccia include anche la possibilità dei c.d. “rimpatri indiretti” – ossia che il paese ricevente disponga a sua volta un rimpatrio verso un altro paese terzo non sicuro, di solito quello di nascita (es. una volta riammessi in Turchia, il richiedente viene espulso verso il Pakistan) – stabilendo l’onere per il paese che effettua il respingimento di valutare che il paese ricevente non esponga il richiedente al pericolo di ulteriori espulsioni verso altri paesi terzi non sicuri [53].
Per perseguire il principio universale di tutela della vita umana [54], tale divieto si applica anche a coloro che hanno avuto negata la loro domanda di asilo o che non hanno mai presentato la domanda.
Particolare attenzione deve essere posta all’esame con cui deve essere indagata la possibilità che il paese da cui è transitato il richiedente sia o meno per lui sicuro. In tal senso, sono emerse notevoli criticità in merito all’esame della domanda in Grecia in cui viene accertato dall’European Asylum Support Office (EASO) [55], in modo celere e superficiale, se il richiedente abbia delle valide ragioni per ritenere la Turchia un paese per lui non sicuro. Ad eccezioni di rari casi, il parere espresso da tale autorità è stato nella maggior parte delle volte di inammissibilità che ha comportato poi l’espulsione [56]. E’ bene ricordare in tal senso che secondo la costante giurisprudenza europea [57], è da considerarsi espulsione collettiva quella effettuata nei confronti dei richiedenti senza che sia stato compiuto un esame approfondito e accurato di ogni singola situazione individuale.

3.1.2 Inammissibilità di una domanda, la normativa comunitaria a riguardo

Più in particolare, l’art. 33 della Direttiva 2013/32/CE [58] sancisce effettivamente la possibilità di dichiarare inammissibile la domanda di asilo che rivela, dopo un attento esame individuale, che una persona possa essere riammesso in un paese definibile “di primo asilo” o “terzo sicuro”, nozioni specificate nella stessa direttiva che prevedono tuttavia alti e dettagliati standard di sicurezza che il paese terzo in questione deve dimostrare di possedere. Nel caso “di primo asilo”, dimostrare quindi che colui che sarà riammesso “sia stato riconosciuto in detto paese quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione, ovvero goda altrimenti di protezione sufficiente in detto paese, tra cui il fatto di beneficiare del principio di «non-refoulement» [59]”. Nel caso di “paese terzo sicuro” di non subire “minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale ,[…] il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE”, e che sia ” rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra ; d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della convenzione di Ginevra [60]”.
Chiude inoltre il cerchio di garanzie, l’obbligo sancito dalla Direttiva di esaminare singolarmente la domanda di asilo per assicurarsi che tali concetti possano essere applicabili al caso concreto e la garanzia del diritto di impugnare la decisione. Il concetto è ribadito più volte anche dalla stessa giurisprudenza europea che sottolinea come l’espulsione di un gruppo di stranieri può avvenire solo ed esclusivamente dopo una valutazione attenta dei singoli casi specifici di ogni membro del gruppo [61].
Alla luce di quanto appena detto, la domanda da porsi è se davvero la Turchia possa essere considerata un paese terzo sicuro o paese di primo asilo, soddisfacendo le garanzie minime di sicurezza – tra cui, la possibilità concreta di presentare domanda di asilo, se la protezione accordata sia adeguata agli standard minimi richiesti e se non vi è il pericolo di essere ulteriormente respinti verso paesi in cui è in rischio l’incolumità di detta persona – oppure le riammissioni in questione violino la norma comunitaria precedentemente richiamata e il principio di non refoulement.

3.2 La Turchia: un Paese terzo sicuro e in linea con gli standard di tutela internazionale dei diritti dell’uomo?

Nonostante i passi in avanti compiuti, anche a seguito della richiesta di entrare a far parte dell’Unione Europea, la Turchia oggi non può in alcun modo considerarsi un paese sicuro.
La deriva autoritaria intrapresa dal paese nell’ultimo decennio, connotata da una maggiore violenza e repressione generalizzata a seguito degli scontri di piazza Taksim [62], ha raggiunto il suo apice all’indomani del presunto golpe del 15 luglio del 2016 [63]. A partire da quella notte di violenti scontri, sono seguite dispotiche e violente rappresaglie nei confronti di tutti gli oppositori politici e dissidenti dell’attuale presidente Erdogan, il quale ha trasformato la Turchia in quella che viene oggi soprannominata “la più grande prigione per giornalisti al mondo [64].
A ciò si aggiunga la storica guerra asimmetrica e senza sconti mossa al popolo curdo che si protrae ormai dalla fine degli anni ‘80 e che ha causato nel solo ultimo triennio la morte di oltre 2.300 militanti curdi e di 700 civili [65].
In tal senso, nel voler considerare la Turchia un paese sicuro sono alquanto singolari i dati che riguardano coloro che sono fuggiti dal regime per chiedere asilo in Europa [66]: negli anni 2014 e 2015 erano rispettivamente 4.415 e 4.180. All’indomani del colpo di stato, con un accordo stipulato con l’Unione Europea ancora caldo, che si fonda sull’assunto che il paese possa essere considerato un paese terzo sicuro, le domande crescono esponenzialmente arrivando a 10.105 nel 2016 e 14.655 l’anno successivo [67]. Sempre nel biennio 2015/2016 la Turchia è entrata di prepotenza tra i primi 30 paesi terzi da cui gli Stati membri dell’UE hanno ricevuto domanda di protezione internazionale [68].
Ancora, per comprendere meglio la forzatura dell’accordo e la connivenza dei governi europei nei confronti di quello che viene oggi definito il “regime turco” al solo fine di fermare fuori le porte dell’occidente il flusso migratorio, basti pensare che al momento della sua firma erano solo dodici i Paesi europei che si erano dotati di un elenco di paesi terzi da ritenere sicuri e che, tra questi, solo la Bulgaria considerava la Turchia un paese terzo sicuro! (la Grecia non aveva nemmeno una sua lista) [69].
C’è da chiedersi pertanto quale tipo di protezione possa offrire un paese con delle così gravi disfunzionalità nell’esercizio della sua democrazia interna. Un governo che non riesce a garantire il rispetto dei principi fondamentali al suo popolo, che tipo di garanzie può offrire ad un richiedente asilo?
I molteplici osservatori internazionali hanno ripetutamente evidenziato tali criticità, sottolineando inoltre come ad oggi la possibilità di ottenere l’asilo non sia nemmeno sempre scontata e la normativa interna crei dei pesanti squilibri tra le differenti nazionalità di provenienza dei richiedenti distinguendo tra rifugiati di serie A e di serie B.
Ad oggi, per coloro che non sono siriani e intendono presentare domanda di asilo, la situazione che si presenta è drammatica a causa dell’incapacità delle autorità di gestire il carico di domande [70] e delle limitazioni di un sistema che non assicura le garanzie procedurali minime.
Gravissime lacune si registrano anche in merito agli standard qualitativi dell’ accoglienza [71], il cui sistema è ancora oggi accessibile praticamente ai soli siriani – escludendo di fatto tutti i profughi di altre nazionalità che si trovano in Turchia – e solo per un numero estremamente ristretto di loro, il 6%.
L’assenza di una governance dell’emergenza, pone serie criticità in merito alla possibilità di usufruire dei servizi più essenziali, quali l’assistenza sanitaria [72] o l’istruzione scolastica, obbligando inoltre i richiedenti asilo all’entrata nel vortice del lavoro nero per ottenere il denaro sufficiente per l’affitto di una casa [73].

3.2.1 Il sistema di protezione internazionale in Turchia

“La mia famiglia è curda. Veniamo dall’Iraq”. Idris scandisce in modo fiero la parola “curdo”.
E’ una settimana talmente calda a Ventimiglia che sotto il ponte, accampamento informale per chi è in attesa di superare la frontiera, stanotte ci sono visibilmente più persone [74]. Prima di accompagnarlo in Chiesa, dove troverà rifugio e, nonostante l’ora, un pasto caldo per lui, sua moglie e i suoi figli, mi chiede di accendere una sigaretta.
Andrà via già domattina all’alba, di lui non resterà altro ricordo che un pezzo di carta con un timbro e un numero che gli è stato consegnato a Istanbul per imbarcarsi su una nave diretta verso l’Italia.
“Avevo denaro sufficiente per superare il confine insieme alla mia famiglia. Sono arrivato velocemente a Sanlurfa dove abbiamo vissuto per strada per alcuni giorni. Sapevo di dovermi dirigere verso Istanbul, avevo degli amici lì che mi avrebbero aiutato. Qualcosa però è andato male e ci abbiamo messo molto più tempo per andarcene dalla città. Una sera, mentre stavamo dormendo vicino la stazione, la polizia ci ha chiesto i documenti. Ci hanno chiesto di seguirli presso una stazione di polizia. La polizia turca ci ha tenuti prigionieri per oltre 3 settimane, me, mia moglie e i miei due figli piccoli di tre mesi uno e un anno e mezzo l’altro”.
La riserva geografica della Convenzione di Ginevra.
Qualunque individuo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, può presentare domanda di protezione internazionale in Turchia? La risposta è no.
La Turchia ha infatti ratificato [75] la sola Convenzione di Ginevra per i Rifugiati del 1951 [76] – che era applicabile ai soli avvenimenti verificatisi antecedentemente al 1951 [77]. e accettandola con la cosiddetta limitazione o “riserva geografica” – senza invece mai aderire al successivo “Protocollo relativo allo status di rifugiato” del 1967 [78], che rimuoveva ogni limitazione geografica e temporale [79].
Ciò rende la Turchia di fatto esente da qualsiasi obbligo verso cittadini non europei che arrivino nel paese per chiedere asilo.
Refugee, Conditional refugee, subsidiary protection e temporary protection .
Per quanto appena detto, il sistema di protezione internazionale in Turchia [80] oggi regolato dalla “Law of foreigners and international protection [81]”, seppur con una struttura che ricorda molto il modello europeo presenta profonde differenze rispetto al sistema comunitario europeo e dei suoi paesi membri [82].
Lo status di “refugee” è garantito, nel rispetto degli impegni assunti con la ratifica della Convenzione di Ginevra (con le limitazioni per riserva geografica), ai cittadini – che hanno la ragionevole paura di poter essere perseguitati nel loro paese per ragioni di razza o di religione, per appartenenza a una determinata classe sociale o per le loro idee politiche – dei soli paesi europei [83]. A tali persone viene garantito un permesso di lungo termine per restare in Turchia.
Coloro che soffrono il medesimo rischio, ma che tuttavia provengono da paesi non appartenenti all’Unione Europea possono ricevere il permesso di “ conditional refugee  [84]”. Queste persone non hanno accesso a molti dei servizi garantiti invece ai rifugiati e hanno bisogno di un permesso specifico per poter lavorare. Tali limitazioni sono poste in ragione del fatto che la loro permanenza in Turchia è temporanea ed è permessa fin quando, dopo aver presentato domanda presso un ufficio dell’UNHCR, non verranno ricollocati presso un paese terzo.
Una “ subsidiary protection  [85]” è poi riconosciuta a stranieri o apolidi che non rientrano nella categoria di refugee o di conditional refugee, ma che se tornassero nel loro paese rischierebbero di essere condannati a morte, subire torture o rischiare la propria incolumità a causa di conflitti armati.
Accanto a tali tre forme di protezione internazionale [86], per una decisione del Ministro dell’Interno, tutti i siriani che cominciarono ad arrivare successivamente al 28 aprile del 2011 iniziarono a beneficiare di quello che nel 2014 [87] sarà formalizzato nello status di “ temporary protection  [88]”. Tale forma di protezione [89] è ad oggi concessa quasi esclusivamente ai soli siriani [90], soprannominati “guest”, ospiti. La normativa prevede infatti che possano godere della protezione temporanea tutti coloro che sono stati costretti a lasciare il loro paese, senza avere la possibilità di farvi ritorno, che “sono arrivati o hanno attraversato i confini della Turchia con un flusso massiccio” in cerca di “una protezione temporanea e immediata” e “le cui richieste di protezione internazionale non possono essere prese in base a una valutazione individuale [91]”.
Coloro che vogliono presentare domanda di protezione internazionale [92] devono rivolgersi presso la Provincial Directorate of Migration Management (P.D.M.M.) della provincia in cui si trovano.
Nonostante sia il D.G.M.M. il responsabile per tutte le decisioni di protezione internazionale prese sia a livello centrale sia dai P.D.M.M., nella pratica sono diversi gli attori impegnati. Nello specifico, anche a fronte dell’iniziale impreparazione dei funzionari governativi e della carenza di risorse, le prime fasi procedurali (registrazione e primo colloquio di registrazione) competono all’UNHCR [93], che ha sinora formato e supportato il personale governativo, e al suo partner la Association for Solidarity with Asylum Seekers and Migrants (A.S.A.M.) [94], mentre il colloquio relativo al merito della domanda e la relativa decisione sono di esclusiva competenza delle P.D.M.M..
I richiedenti protezione internazionale hanno il diritto a restare sul territorio [95], e l’obbligo di vivere in province designate (per i siriani nel distretto dove sono stati registrati per la prima volta), durante tutta la procedura fatta eccezione per il richiedente che appartenga o abbia relazioni con gruppi terroristici o criminali, oppure sia una minaccia per l’ordine o la salute pubblica [96].

3.2.2 I respingimenti collettivi operati dalla Turchia

Neanche il principio, richiamato precedentemente, del c.d. divieto di “respingimento indiretto” (vedi § 3.1.1) può ritenersi in alcun modo soddisfatto.
Nonostante infatti la Turchia abbia codificato sulla carta la regola del non refoulment, stabilendo che “nessuno deve essere restituito ad un luogo in cui può essere sottoposto a tortura, a pene o trattamenti inumani o degradanti o, laddove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica [97]” (integrando la protezione con le garanzie previste dalla protezione sussidiaria), la denuncia degli osservatori internazionali e le testimonianze degli stessi migranti raccontano tutt’altro.
In tal senso, si sottolinea in primis la tragica prassi della Turchia di rimpatriare i migranti che sono stati riammessi dalla Grecia (o che già si trovavano in Turchia), soprattutto coloro che provengono dall’Afghanistan [98] e dal Pakistan [99], nonostante il gravissimo rischio per la loro incolumità che correrebbero nei paesi di origine. D’altronde, la velocità con cui avvengono tali riammissioni e l’altissimo numero di coloro che le subiscono, permette di sostenere che non avvenga a monte un’esauriente (o nessuna!) analisi personale del rischio concreto a cui quest’ultimi vengono sottoposti [100].
In secondo luogo si sottolinea la violenza delle procedure adottate dalle forze di polizia e dai militari preposti al controllo dei confini (vedi § 2.1.1), che continuano deliberatamente ad aprire il fuoco sulla popolazione inerme in fuga dalla Siria mentre cercavano di entrare in Turchia.
Da ultimo, recenti inchieste hanno portato alla luce l’ulteriore pratica del governo di intercettare i migranti in fuga ormai arrivati nelle città turche di confine, arrestarli ed espellerli in modo del tutto arbitrario in Siria [101].

PARTE IV – Gli effetti dell’accordo sul flusso migratorio
4.1 Il decremento degli arrivi via mare durante il biennio 2016-2017

L’accordo è lo scacco matto al flusso migratorio che ha fatto registrare immediatamente un netto crollo negli arrivi via mare fino a toccare il punto più basso nel giugno del 2016 con 1.554 arrivi via mare registrati. Complessivamente, con 173.450 arrivi nel 2016 rispetto ai 856.723 dell’anno precedente, il decremento è del 79,5%.
Il 2017 registra un ulteriore calo negli arrivi in Grecia (29.718), con un decremento del 82,87% rispetto al 2016 e del 96,53% rispetto al 2015 [102].
4.2 L’altalena del flusso durante il biennio
Nonostante l’evidente strozzatura e il calo netto del numero di arrivi rispetto agli anni precedenti, il flusso migratorio ha disegnato dal 2016 ad oggi una
curva decisamente altalenante.
Nel brevissimo periodo, tra il mese di marzo e quello di aprile del 2016, si è assistito ad un crollo netto negli arrivi del 87,82%. A fronte di una momentanea linearità che nel trimestre successivo (maggio, giugno e luglio 2016) si stabilizza su una media di arrivi di circa 1.700 persone, nel mese di agosto un nuovo picco di arrivi registra oltre 3.400 entrate in territorio ellenico (con un andamento simile durante i mesi di settembre e ottobre).
Tale fenomeno probabilmente è riconducibile in questo caso all’instabilità politica interna della Turchia. Immediatamente dopo il colpo di stato di luglio, si è evidenziato infatti un particolare incremento di arrivi in Grecia dovuti quasi certamente alla difficoltà del sultano, in tale momento storico, del controllo dei propri confini. Occorrerà aspettare il mese di novembre per tornare sotto i 2.000 ingressi e quello di dicembre per tornare ai numeri di maggio.
Anche durante il 2017 è stato registrato un andamento discontinuo con un picco considerevole negli arrivi nei mesi compresi tra agosto e novembre. In questo caso l’eterogeneità nel numero delle entrate è da ricondursi ad una precisa strategia politica del governo turco. Un modo efficace e silenzioso di mostrare i muscoli, a fronte delle accuse mosse da alcuni governi europei che continuano, seppur ormai con voce decisamente flebile, ad accusare Erdogan di continuare ad adottare misure fortemente antidemocratiche.
Particolarmente significativi sono gli episodi di tensione che hanno esacerbato i rapporti tra la Germania e la Turchia sin dal luglio del 2017, quando il ministro degli esteri tedesco Gabriel mise in guardia le proprie aziende nell’investire in Turchia. La risposta del Governo turco fu la richiesta di estradizione di oltre 400 cittadini turchi accusati di essere connessi al colpo di stato, accompagnata dall’arresto di dieci cittadini tedeschi accusati anch’essi di essere implicati nel tentativo di golpe. Nel periodo immediatamente successivo, ulteriori dichiarazioni di Merkel – che la Germania avrebbe posto il veto ad ogni aggiornamento degli accordi doganali tra la Turchia e la U.E. fin quando non ci sarebbero stati dei progressi in termini di tutela dei diritti umani da parte del presidente Erdogan – e di Gabriel – che “il governo turco e Erdogan si stanno velocemente allontanando da tutto ciò che l’Europa sostiene e difende” -, hanno nuovamente fatto seguito alle minacce più o meno velate di Erdogan di non rispettare l’accordo stipulato e aprire le porte all’immigrazione.
Durate tali mesi convulsi gli arrivi via mare sono saliti in numero sino a toccare le 3.500 unità in agosto e le oltre 4.800 in settembre.
4.3 La situazione attuale. I primi sette mesi del 2018
Durante i primi sette mesi del 2018 si è registrato in Grecia un incremento complessivo di arrivi (attraversamento delle frontiere sia terrestre che marittima) del 88% rispetto all’anno precedente [103], con una crescita del 41% di quelli via mare [104].
La popolazione migrante sbarcata sulle coste elleniche è per lo più proveniente dalla Siria (35%), dall’Iraq (21%), dall’Afghanistan (15%), dal Congo (5%) e dal Camerun (4%) [105].
La demografia del flusso mostra l’alto tasso di vulnerabilità di chi arriva, per lo più nuclei familiari. A differenza dell’immigrazione che coinvolge la Spagna e l’Italia, la cui percentuale di maschi adulti supera il 70%, i richiedenti che giungono sulle coste elleniche sono infatti per il 24% donne e per il 36% minori (di cui circa 1 su 7 è un minore straniero non accompagnato [106] e solo per il 40% uomini.
La maggior parte dei migranti è sbarcata sulle isole del Dodecaneso (2.178), a Samos (3.234) e a Lesvos (8.550).
4.4 Le isole lager
“I continui arrivi nelle isole dell’Egeo e il lento ritmo dei rimpatri sono fonte di continue pressioni sulla capacità di ricezione degli Hotspot”.
Il sistema architettato da governi dell’Unione regge, ma solo a metà. Infatti, anche a causa dei rapporti sempre più tesi tra i diversi paesi comunitari e la Turchia – cui seguono le ripetute minacce da parte di quest’ultima di sospendere i trasferimenti e aprire le proprie porte a tre milioni di migranti verso l’Europa -, alla diminuzione degli arrivi sulle isole elleniche non corrisponde tuttavia un numero sufficiente di riammissioni. Dall’aprile del 2016 fino all’aprile del 2018, a fronte dei 57.450 arrivi sulle isole successivi alla stipula dell’accordo, sono stati forzati a rientrare in Turchia in totale “solo” 2.164 persone [107] (in forze di entrambi gli accordi di riammissione [108]).
Se da una parte l’accordo permette di alleggerire la pressione migratoria in Grecia sulla terraferma (pur restando bloccate decine di migliaia di persone a ridosso della frontiera macedone e di quella bulgara, crolla il numero dei transitanti che restano bloccati negli hotspot), dall’altra trasforma le isole greche in enormi prigioni naturali. Chi arriva non può più ripartire infatti verso la terraferma come prima [109], perché trattenuto dalle autorità [110] in attesa di verificare la legittimità della sua richiesta di asilo o essere riportato in Turchia [111]: nel brevissimo periodo ciò comporta che gli hotpsot delle isole di Chios, Samos, Leros, Kos e Lesvos arrivano al collasso [112].
Emblematico è il caso di quest’ultima isola, Lesvos, dove la situazione continua a restare, sin dall’inizio dell’emergenza nel 2016, particolarmente critica. La mancanza di infrastrutture adeguate e il sovrappopolamento dei centri e delle strutture indicate per l’accoglienza, rendono le condizioni della permanenza dei migranti nettamente al di sotto degli standard fissati dalla normativa europea. E’ in tale contesto che le organizzazioni umanitarie, ed in particolare Medici senza Frontiere continuano a denunciare [113] che “la politica di contenimento dei richiedenti asilo sulle isole greche ha portato a oltre 9.000 persone, un terzo delle quali sono bambini, bloccate indefinitamente nel campo di Moria che ha una capacità massima di 3.100 persone”, chiedendo “l’evacuazione di emergenza di tutte le persone vulnerabili, in particolare i bambini, verso un alloggio sicuro nel continente greco e all’interno dell’Unione europea” [114], anche in considerazione dell’aumento drammatico dei tentativi di suicidio e dei casi di autolesionismo tra i richiedenti asilo, soprattutto tra gli adolescenti, registrando come tra febbraio e giugno del 2018 “quasi un quarto dei bambini si era auto-danneggiato, aveva tentato il suicidio o aveva pensato di suicidarsi. Altri bambini hanno sofferto di mutismo elettivo, attacchi di panico, ansia, attacchi di aggressività e incubi costanti [115]”.


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