L’accesso alla sanità per i rifugiati siriani in Turchia
Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l’erba bruciata, i campi riarsi… perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Quanti dovrebbero avere questa pietà! Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana. (L’arpa birmana)
(Roberto Ardigò)
1. L’anima di Aynan è piena di stelle cadenti
Ancora Reyanli, confine siriano – inizio dell’inverno del 2016.
Il manto stradale alterna lastre malconce di cemento deteriorato alla nuda terra battuta. Passa un calesse di altri tempi che trasporta legna e bidoni di plastica trafugati dai bidoni della spazzatura. Ci taglia la strada anche qualche scooter elettrico, di quelli che come certi missili “intelligenti” senza far rumore te li trovi alle spalle senza sapere né come né da dove siano arrivati.
Hisham, un fisioterapista siriano, fuggito dalla guerra ormai un’anno fa, ci attende davanti l’uscio di casa invitando tutti noi a sfilarci le scarpe ed entrare scalzi. Appoggio gli anfibi vicino al mucchio di sneakers logore e stivaletti scoloriti. Scoprirò solo più tardi, sorseggiando i 40 gradi di raki offerto dall’hotel, che tutti noi nel rinfilarle alla sera ci siamo abbandonati al silenzio del pudore scatenato dal fatto che coloro a cui appartenevano, ironia della sorte, non potranno più tornare a camminare con le proprie gambe.
L’intero primo piano della casa è infatti una clinica medica illegale, ce ne sono diverse nelle cittadine a ridosso del confine siriano. Accolgono per lo più ex combattenti della Free Syrian Army [1] ma anche quel che resta delle famiglie dilaniate e smembrate dal conflitto che, giunte in Turchia, non hanno un posto dove andare e necessitano di un ricovero e di cure mediche.
Hakim è uno di loro. Sua moglie Saliha è stata fatta a pezzi da un ordigno esploso nel mercato principale della città e adesso lui non ha che suo figlio Dhakir, intrappolato in occhi assenti e parole biascicate senza senso, l’immagine più devastante degli effetti che la guerra sta producendo sui bambini. Lo abbraccia e pronuncia il suo nome, con una voce talmente flebile da perdersi nei rumori provocati dall’infermiere che, estraendo il bisturi dalla fodera, si prepara alle prime operazioni di routine.
Una voce baritonale, profonda, alle mie spalle ci dà il benvenuto. Ayman ci invita ad accomodarci. Lo seguiamo fino al piccolo studio ricavato in una delle stanze dell’appartamento da dove, dietro le pesanti sbarre di metallo, si scorgono le ultime terre incolte del sultano divorate dalla siccità e dal passaggio dei mezzi blindati di ronda lungo la frontiera.
Come sempre l’accoglienza del mondo arabo riesce a spiazzarmi. In quel delirio di dolore e sogni infranti, spezzati come le ossa dei pazienti supini sui letti di tutta la casa, una tavola imbandita di frutta variopinta rompe la penombra di cui è avvolta la stanza.
Ayman è seduto dietro una vecchia scrivania di legno massello, quasi completamente occupata da pile di fogli A4 scarabocchiati in lingua turca e inglese, un PC e qualche penna bic senza tappo.
“Volete sapere cos’è questo posto, vero? Questa è Alaafia! [2] Adesso è la nostra casa“, la sua voce scandisce le parole in arabo una dopo l’altra, prestando attenzione agli accenti e alle pause. Ha la stessa risoluta fermezza di chi ha perso tutto e, a pochi passi dal baratro, piuttosto che impazzire e saltare giù annegando nel proprio dolore, ha trovato il modo di fare a pezzi le proprie paure e ricostruirci sopra utilizzandole come solide fondamenta.
“Io, tutti noi, non siamo soldati né lo siamo mai stati. Noi siamo combattenti. Lo siamo adesso, lo siamo da anni, ma non è sempre stato così. Eravamo persone normali tempo fa, avevamo paura di imbracciare un fucile e combattere. Non eravamo abituati alle devastazioni che produce la guerra civile, quello che stava accadendo tutto intorno a noi ci ha preso alle spalle”.
Mi scorrono davanti le immagini trasmesse dai telegiornali, catturate durante le notti in cui nel 2012 su Darayya, roccaforte ribelle, iniziavano a piovere missili mentre il cielo con tutti i suoi dei precipitava sulla popolazione inerme. A quelle giornate di massacri sarebbero seguiti i lampi su Damasco e i colpi mortali ai danni di un intero popolo da parte prima del regime e successivamente degli jihadisti dell’ISIS, il tutto nell’assordante silenzio della comunità internazionale.
“Ho cominciato a combattere nel 2014 con la Free Syrian Army. E’ cominciato tutto con il preciso scopo di proteggere noi stessi, la nostra famiglia e le persone che amavamo dalla follia che ci stava logorando e uccidendo. Ci sono arrivate le armi da qualcuno che ci appoggiava da dentro il regime e un giorno abbiamo compiuto una scelta”. I suoi occhi chiari brillano nella penombra, incrocia nuovamente le braccia riportando le spalle ad aderire allo schienale della sedia. Fissa la frutta e il çeçil [3] ancora sul tavolo davanti a lui. “Ho combattuto”, prosegue fiero Ayman, “fino all’ottobre del 2015 [4], quando durante l’assedio del distretto di al-Wair, il quartiere di Homs dove abitavo, un missile russo Grad lanciato dal regime siriano ha colpito la casa in cui abitavo che mi è crollata addosso in un battito di ciglia. I bombardamenti hanno semi distrutto diversi palazzi di quello che restava della città in cui sono nato e vivevo”.
D’improvviso, il corpo del Ayman si ritrae improvvisamente, scioglie le braccia liberandosi dalla rigidità della severa compostezza con cui aveva iniziato la sua sua narrazione. “Nei palazzi colpiti non vivevano miliziani o dissidenti, c’erano solo civili inermi”, esclama con rabbia.
“Quando ho ripreso conoscenza, ho scoperto che il mio corpo era martoriato dalle schegge e avevo diverse ossa che si erano fratturate e rotte. Ho sofferto molto per quelle ferite. Fui costretto a restare sdraiato a letto per due mesi senza muovermi. Siamo rimasti ancora a lungo sotto l’attacco del regime, con il risultato che per i mezzi di soccorso e i medici era difficile raggiungerci, le cure erano insufficienti e durante alcune giornate praticamente nulle.
Poi, un giorno, le Nazioni Unite hanno negoziato con il regime l’abbandono della città di trecento combattenti e di cento loro famiglie. Una parte di queste persone – me compreso – è poi stata fatta arrivare in Turchia per essere curata”. La BBC riportò in merito che, nell’ambito di quell’operazione, gli aiuti alimentari riuscirono a superare l’assedio per la prima volta dopo oltre un anno [5]. Era il 9 dicembre del 2015 e, delle 300.000 persone che vivevano ad al-Wair prima dell’inizio del conflitto siriano, ancora 75.000 sarebbero rimaste intrappolate nel quartiere.
“Mi hanno portato a Rejanli e sono stato curato in ospedale. Il ferito che arriva in Turchia è lasciato allo sbando, è solo lui ha prendersi cura di se stesso nella totale disorganizzazione del sistema sanitario nazionale e assenza di aiuto da parte delle organizzazioni umanitarie che non seguono i feriti durante le cure e non vigilano sui
trattamenti adeguati che dovrebbero seguire. Al pari degli altri, anch’io dopo un periodo di riabilitazione, sono stato messo alla porta.
Nonostante la stanchezza e l’intorpidimento del corpo e della mente per le medicine ricordo benissimo la conversazione che ebbi con l’autista del taxi che aveva chiamato la reception dell’ospedale. – Dove andiamo? – mi chiese. Io non avevo idea, non conoscevo la città. Ero una barca alla deriva. Fu l’autista quindi a parlarmi dell’esistenza di queste cliniche fantasma, centri di riabilitazione per siriani messi alla porta dall’accoglienza turca”.
Il racconto di Ayman viene interrotto dalla suoneria del suo vecchio samsung con il vetro semidistrutto.
Parla in arabo, spedito, con cadenza armonica e una voce altisonante. Lo sento ripetere spesso singole parole o intere frasi per accertarsi che il suo interlocutore sia riuscito a capire bene quello che gli sta dicendo. Sta discutendo con Mansour, un uomo sulla cinquantina che abbiamo conosciuto il giorno precedente e che si occupa di portare il cibo e l’acqua nei campi profughi informali nella provincia di Kilis.
Dopo pochi minuti e il tempo di un altro çai, l’ex combattente siriano riprende il suo racconto.
“Quando giunsi la prima volta qui, questa casa, questo ricovero non era ancora così, non c’era l’organizzazione che c’è ora. Non avevamo denaro. E’ stato grazie ad un amico se adesso abbiamo un contratto di affitto per un anno e risorse economiche sufficienti per comprare il materiale necessario per gli interventi chirurgici di cui necessitano i nostri pazienti. Sono 20 in questo momento, tutti siriani che nella maggior parte dei casi, dopo aver ricevuto le prime cure negli ospedali turchi sono stati abbandonati a loro stessi.
Adesso siamo in grado di eseguire diversi tipi di interventi e offrire davvero un ottimo servizio di riabilitazione. Abbiamo un’equipe formata da infermieri, persone che si occupano dei servizi, un cuoco e un fisioterapista; quattro ragazzi che adesso sono volontari prima erano pazienti della clinica!
Quello che facciamo è portare da noi i feriti dimessi dall’ospedale per assicurargli le cure necessarie durante la degenza. Durante questo periodo di riposo all’interno della clinica, gli offriamo pasti caldi, un servizio di lavanderia e pulizia personale qualora non sia autosufficiente e la fisioterapia riabilitativa. I due infermieri aiutano i feriti nel medicare le ferite e curarle”.
Aynan sembra esausto dalla lunga narrazione di quei giorni in cui ebbe inizio la rivoluzione della sua gente e a cui sarebbe seguita la sconfitta, quindi la sua rinascita in un paese straniero.
Da fuori non si sentono più i colpi di martello sferrati sulle travi di metallo dai muratori siriani, e la luce del tramonto filtrata dalle grate della finestra crea ombre danzanti sul muro bianco della stanza. Gli ultimi raggi di sole orizzontali arrivano dritti negli occhi stordendo i sensi già assuefatti dall’odore delle spezie e della cipolla fritta che il cuoco sta utilizzando in cucina per preparare la mejadra.
Un celebre autore del romanticismo francese affermava che “nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui. Si chiama disperazione. L’anima è piena di stelle cadenti [6]”.
La guerra, la sconfitta del suo popolo e l’umiliazione della fuga hanno riempito l’anima di Aynan di stelle cadenti.
2. L’accesso al servizio sanitario per i rifugiati siriani in Turchia
“Credo seriamente, che il problema della cattiva gestione dell’intervento sanitario sulla popolazione in fuga dalla Siria sia dovuto non solo a una mancanza di mezzi e risorse, quanto piuttosto alla totale assenza di un programma chiaro da parte del governo. C’è una forte pressione, in termini di numeri e di richiesta di assistenza sul personale medico, in quanto il flusso di feriti in entrata nel paese è sempre in aumento e nettamente al di sopra delle capacità di gestione della crisi da parte del governo. E’ per queste ragioni che è nata questa clinica, per aiutare i feriti che, entrando in Turchia, non ricevono le cure adeguate”. Aynan sottolinea più volte questo concetto mentre l’infermiere cambia la fasciatura a Riyadh, un ragazzo di poco più di venticinque anni a cui una raffica di proiettili hanno spezzato le ossa del braccio e maciullato il fascio di nervi e muscoli che l’avvolgevano .
2.1 A braccia aperte?
La stampa nazionale turca ha più volte dichiarato che la politica di accoglienza messa a punto da Ankara sia da ritenersi “a braccia aperte … un’incredibile generosità [7]“ da parte dei cittadini e del governo stesso che continua a fare tutto il possibile per accogliere nel migliore dei modi i rifugiati in fuga dal conflitto siriano.
Legal framework. Eppure solo due anni dopo l’inizio della guerra civile siriana, il governo turco ha definito il suo primo approccio politico e legislativo in merito all’accesso ai servizi sanitari [8] attraverso la pubblicazione nell’aprile del 2013 della Legge n. 6458/2013 sugli stranieri e la protezione internazionale, entrata poi in vigore l’ 1.4.2014, che disciplina l’ingresso ed il soggiorno dei cittadini stranieri in Turchia. Secondo questa normativa tutti i rifugiati siriani, registrati o meno [9], hanno il diritto di accesso – nelle undici province lungo il confine turco-siriano – a tutte le cure offerte a titolo gratuito dal servizio sanitario nazionale, al pari dei cittadini turchi [10]. Secondo questa nuova politica, il governo turco si sarebbe dunque dovuto impegnare a garantire cure mediche gratuite ad un altissimo numero di rifugiati [11], tra quelli già presenti sul territorio e il numero stimato dei nuovi arrivi. Successivamente, la Turchia ha poi esteso la copertura sanitaria alle 81 province della Turchia [12].
La Legge n. 6458, nel sancire il diritto di accesso ai servizi sanitari per rifugiati e richiedenti asilo sotto regime di protezione temporanea in Turchia, stabilisce che “i servizi destinati ai soggetti sotto protezione temporanea” organizzati dalle agenzie e ministeri responsabili [13], devono essere regolamentati dall’AFAD, ovvero dal Primo Ministero per i Disastri e l’Amministrazione e Gestione delle Emergenze, mentre la fornitura dei servizi in ogni provincia è sotto la responsabilità diretta degli stessi governatori provinciali [14]. Un ulteriore algoritmo, ridefinito dal Dipartimento di Analisi Finanziaria degli Ospedali pubblici l’11 settembre 2015, determina, per ogni rifugiato, la tipologia di servizio e di struttura accessibile.
Ulteriori regolamenti che definiscono i servizi forniti alle persone sotto protezione temporanea sono la Circolare 2013/8, la Circolare 2013/12, la Circolare 2014/4, il Protocollo in data 1/7/2015 e la Circolare 2015/8 [15] – ‘Circolare sull’implementazione dei servizi sanitari per stranieri sotto protezione temporanea’, che ha cambiato i regolamenti relativi all’accesso ai servizi sanitari secondari [16].
2.2 I servizi erogati
Fino al 2014, ad eccezione dei servizi di emergenza, per i rifugiati registrati ma residenti al di fuori dei campi profughi [17] l’accesso ai servizi curativi e alle medicine è rimasto piuttosto limitato. Nella maggior parte dei casi, essi hanno fatto affidamento alle loro risorse personali.
E’ solo a partire da tale anno che essi hanno potuto di fatto beneficiare dei servizi sanitari pubblici. Ad oggi, tuttavia, come specificato dallo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), “l’accesso libero ai trattamenti medici nelle strutture sanitarie pubbliche sono garantiti a tutti i rifugiati registrati, che vivono all’interno o fuori dai campi profughi. I servizi medici di emergenza sono garantiti a tutti, mentre la registrazione è richiesta per accedere ai servizi non emergenziali” [18].
Il sistema delle ID cards. Il governo turco ha introdotto con la Legge 6458, un sistema basato sulle ID cards, ovvero delle carte d’identità (e di identificazione) per i rifugiati siriani sotto il regime di protezione temporanea, obbligatorie per ricevere cure mediche, avere accesso a strutture sanitarie ed educative, e per ottenere altri servizi.
Il procedimento di ottenimento della ID card di protezione temporanea inizia con la presentazione di una richiesta presso i centri di registrazione della provincia in cui il rifugiato si trova, compilando un documento di pre-registrazione. Quanto il processo di security check [19] è terminato, con il riconoscimento solitamente della protezione temporanea, il rifugiato riceve una carta d’identità per la protezione temporanea [20] che legalizzando la sua presenza sul suolo turco gli permette di accedere ai diritti e servizi fondamentali tra cui il servizio sanitario [21].
Tale procedimento dovrebbe portare alla registrazione spontanea di un numero sempre più alto di rifugiati, pubblicizzando la possibilità dell’accesso ai diritti ma solo se in possesso della card. Osservando le statistiche ed i dati, questo sistema di promozione sembra tuttavia non aver funzionato come sperato, in quanto l’implementazione del sistema sanitario destinato ai rifugiati siriani risulta ancora problematica.
I servizi sanitari garantiti. Gli articoli 20 e 27 della Legge n. 6458 – stabilendo preliminarmente che agli stranieri neo arrivati devono essere garantiti con priorità i servizi di emergenza e che coloro che potrebbero costituire un pericolo per la salute pubblica devono essere sottoposti a controlli medici, in linea con le procedure e i principi determinati dal Ministero della Sanità [22] – determinano l’an e il quantum dei servizi cui hanno accesso i rifugiati.
La normativa differenzia tra coloro che sono sotto protezione temporanea e possiedono la Carta d’Identità e numero di previdenza sociale, e coloro sotto protezione temporanea che non sono ancora registrati presso il Direttorato Generale per la Gestione delle Migrazioni.
Nello specifico, gli stranieri sotto protezione temporanea possono beneficiare dei servizi sanitari solo nelle province in cui sono registrati. I pazienti possono essere trasferiti in altre strutture qualora le procedure lo prevedano, ma non possono consultare altre strutture spontaneamente senza prescrizione medica; nello specifico, non possono rivolgersi direttamente a strutture sanitarie private [23]. Possono beneficiare dei servizi sanitari in altre province diverse da quelle di registrazione solo in caso di emergenza e malattie trasmissibili. La legge stabilisce inoltre che coloro che sono sotto protezione temporanea hanno diritto solo ai servizi sanitari previsti dallo Schema Assicurativo Sanitario Generale.
Coloro invece che sono sotto protezione temporanea con ID ma senza numero di previdenza sociale (SGK), così come coloro che non sono registrati, possono solo usufruire dei servizi sanitari di emergenza e servizi sanitari di primo livello in caso di malattie epidemiche o trasmissibili che minacciano la salute pubblica. Per servizi sanitari di primo livello, s’intende: servizi, trattamento e diagnosi di pazienti ambulatoriali, servizi di immunizzazione (in linea con il programma di immunizzazione nazionale), servizi di prevenzione di focolai di malattie epidemiche, servizi di prevenzione e cura della TBC, servizi di salute ambientale, servizi sanitari per adolescenti e bambini (vaccinazioni), servizi per la salute riproduttiva, servizi sanitari destinati a coloro che soffrono di disturbi psichici e dipendenza da droghe [24]. La normativa prevede inoltre che il personale competente sia tenuto a fornire informazioni e condurre attività di supporto in materia di salute riproduttiva [25].
2.3 Compartecipazione alle spese sanitarie
La compartecipazione finanziaria del paziente non si applica nel caso di servizi sanitari primari e urgenti, incluse le rispettive prescrizioni mediche ed il trattamento. Per quanto riguarda i servizi sanitari secondari e terziari, tutti i costi possono essere coperti dalla Direttiva per l’Implementazione Sanitaria (SUT), nel caso in cui l’impegnativa venga presentata dall’ospedale pubblico.
In alcune province, l’80% dei costi delle medicine acquistate in farmacia è sostenuto dall’AFAD, mentre il restante 20% è coperto dal paziente.
Per assicurare un funzionamento corretto di questo meccanismo, l’AFAD e la Camera dei Farmacisti si sono impegnati a firmare un apposito protocollo.
I costi delle cure ed il trattamento ospedaliero di un paziente ricoverato sono invece sostenuti totalmente dallo Stato [26].
3. Un sistema inadeguato
Nonostante la legislazione vigente ed i tentativi di regolamentazione, l’insufficienza di risposte adeguate e l’inefficienza del sistema sanitario turco rispetto al flusso di rifugiati è decisamente preoccupante.
In particolare, i servizi sanitari forniti durante il “periodo di transizione”, ovvero tra la prima richiesta di protezione e l’ottenimento dello status legale di rifugiato, sono eccessivamente limitati [27].
Inoltre non esistono delle vere e proprie misure di accompagnamento alla persona.
Amina è una volontaria italiana che, a giorni alterni, presta servizio presso l’ospedale di Gaziantep. “Di cosa ti stupisci?”, mi chiede provocatoriamente interrompendo la mia conversazione con Afrah che racconta di avere un marito che è ormai praticamente invalido a causa di quello che originariamente era solo un banale problema di reumatismi ma che non è stato mai curato. “Anche se hanno accesso alle cure”, prosegue, “uno dei loro problemi più grandi, resta la lingua. Presso l’ospedale i Gaziantep è stato messo a disposizione, sulla carta, un mediatore culturale per gli arabofoni, ma solo per una volta a settimana.
I siriani, anche se hanno diritto alle cure, per farsi capire sono costretti a pagare un traduttore.
Per farti comprendere meglio la tragicità di quello che sta succedendo, ti basti pensare che un giorno ho dovuto dire io a una madre che portava da due mesi il figlio in ospedale perché stava molto male, che i dottori gli avevano diagnosticato un cancro. Dio mio, è stato terribile”.
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